Video Clip zur Ausstellung Wolfgang Paalen im Belvedere, Wien 2019
Annalisa Vandelli, Rom (Katalogtext)
Andreas Neufert, Le ombre della diversità, in: Ausstellungskatalog Annalisa Vandelli, In un Vortice di Polvere, Rom Januar 2017
Su una delle fotografie esposte in questa mostra, una donna se ne sta accovacciata tra le pieghe dei suoi vestiti e le coperte di un semplice letto di metallo. Il drappeggio dei tessuti, di diverse fantasie e colori, richiama la composizione finemente studiata di un quadro religioso. Solo a un secondo, o a un terzo sguardo ci accorgiamo che, per un soffio non siamo stati testimoni dell’evento appena compiuto, che da un punto di vista sia mitologico, sia religioso, può definirsi come l’atto sacro per eccellenza: la nascita. Le fotografie di Annalisa Vandelli sono spesso paragonate a quelle di Henri Cartier-Bresson. Vero è che, con sicurezza quasi cieca, alcune di queste immagini catturano l’attimo in cui la speranza incontra la disperazione e la illumina. La donna non ricambia il nostro sguardo, eppure nei suoi occhi s’intravedono dolore, dubbio, sollievo e un orgoglio pieno di speranza, subito dopo che, scostato un lembo di stoffa, ha mostrato all’artista i gemelli appena partoriti. Se il pathos delle istantanee di Cartier Bresson è riconducibile all’incontro-scontro di emozioni apparentemente contradditorie, ciò vale a maggior ragione per l’opera di Annalisa Vandelli. Chi la conosce sa che è l’artista è dotata, oltre che di uno spiccato senso dell’umorismo, di uno speciale sensore per cogliere la dimensione sublime, se non addirittura religiosa del momento. Immancabilmente le sue fotografie sono sconcertanti, sorprendenti, di grande bellezza e profondamente umane. L’ intento è quello di addensare e conservare un momento della vita in un’emozione intensa, con sapiente senso della composizione, catturare l’essenza di una situazione in un’unica immagine. Perché certe fotografie sono fonte di ispirazione, mentre altre sono veicolo di mera informazione? La risposta a tale interrogativo potrebbe trovarsi proprio qui. Se l’ispirazione è più forte dell’informazione, si direbbe quasi che una fotografia si proietti da sé in una sfera superiore. Ma non è poi così facile. Un aspetto fondamentale dell’arte, forse il più importante, è la qualità del tempo espressa da una determinata immagine.
Una fotografia racconta sempre una storia, ha una dimensione passata del “già”, che non conosciamo esattamente, ma che più o meno possiamo immaginare, se però balza fuori dall’ordine cronologico di tale flusso d’informazione reale e immaginario, arrestandolo in un momento arbitrario, allora possiamo davvero parlare di arte. Poiché i momenti speciali sono tali solo in quanto carichi di una tensione implicita: un misterioso “non ancora” che si intreccia con il consueto orizzonte temporale – il flusso lineare della narrazione. Di colpo cessiamo di porci domande su ciò che è stato e siamo rapiti dal momento stesso come in un’epifania. Poi l’immagine si combina con il fluire della memoria e dell’immaginazione personale e si stacca dal piano narrativo per irrompere in quello riflessivo, o per meglio dire, autoriflessivo dello spettatore.
Le fotografie di Annalisa Vandelli sono al tempo stesso road pictures e singolari composizioni poetiche, combinano fugaci racconti di viaggio, con quella particolare stasi della forza iconografica atemporale, ci colpiscono, ci riguardano, e attraverso il confronto con un sistema di valori diverso dal nostro, si caricano di un esotismo del tutto nuovo. E se ci soffermiamo sulla curiosità, sulle domande misteriose o sugli enigmi religiosi che queste immagini suscitano con le loro offerte incomplete, arriviamo dritti al vero motore dell’immaginazione: anche noi, come i bambini, vogliamo spiare dalle finestre proibite gli altri mondi che contengono possibilità per le nostre vite. Solo così si crea la tensione del racconto immaginario di queste fotografie, perché un elenco di fatti (Aufzählung) diventa una storia (Erzählung) soltanto se ci tocca nel profondo. In maniera del tutto involontaria ci ritroviamo a misurare l’ampiezza delle possibilità in base alla nostra conoscenza di noi stessi e alla natura dei nostri sentimenti. E pian piano iniziamo a muoverci con queste fotografie. Trasportati da entrambi gli orizzonti temporali e in compagnia dell’alterità culturale, viaggiamo alla scoperta dei lati nascosti di noi stessi, che nel nostro tempo sono più che mai minacciati. Altrimenti perché questi mondi che Annalisa Vandelli ci porta dai suoi viaggi come un cantastorie apparirebbero ancora più carichi di diversità culturale che non ai tempi di Cartier-Bresson? Forse perché qui il clash of civilisations si manifesta esclusivamente in un contrasto tra ricchezza e povertà che non ha più nulla di culturale. Queste immagini ci parlano di come la spazzatura del mondo occidentale abbia quasi interamente sommerso le peculiarità culturali. I personaggi sembrano senza dimora, abbandonati a se stessi, culturalmente spogli, sospinti ai margini dell’esistenza dal paesaggio devastato, dalle macchine, dalle bottiglie di plastica e dall’avvento dei gadget – testimonial di un’esistenza banalmente artificiale. Muniti delle prime insegne del XXI secolo, che cercano di agganciare magneticamente alla comunicazione digitale, essi sembrano di colpo degli estranei gettati in un mondo che ci appare come la frastagliata periferia di forme di vita occidentali.
Una donna non più giovane, tocca delicatamente un capo di abbigliamento mentre alle sue spalle appare il volto truccato di una modella su un cartellone pubblicitario. Il segreto dell’arte combinatoria di Annalisa Vandelli risiede nel creare una sorta di marchingegno in cui la banalità delle apparenze cede automaticamente al fascino di un volto autentico, di un corpo vissuto. Solo che questo valore aggiunto non è più ascrivibile all’alterità culturale dell’esotico, ma a una contrapposizione piuttosto impenetrabile, che ci riguarda più da vicino di quel che vorremmo.
A questo punto, cogliendo il poetico invito alla partenza offerto da queste fotografie, vale la pena di viaggiare un po’ dentro noi stessi per chiarire, una buona volta, con quale eminente “contrario” abbiamo a che fare: il Vero, poiché è la vita del tutto priva di lustro ma illuminata da emozioni pure a pulsare sulla opaca carta in cotone di queste fotografie di grande pregio estetico, mentre le asettiche, lisce e trasparenti superfici in vetro con semplici cornici metalliche portano davanti ai nostri occhi gli aspetti più vulnerabili, ribelli e contaminati del nostro presente. In tale contraddizione risuona inevitabilmente l’eco del degrado della nostra società odierna, una società positivista che celebra immagini patinate e cerca di bandire dalla vita umana la negatività della morte, della sofferenza, del disastro. I nostri ideali si sono ridotti a una vita il più possibile prolungata per mezzo di dispendiosi interventi medici, piacevole, sana, ma priva di accadimenti, le cui possibilità si esplorano solamente facendo zapping. Nel profondo dell’anima, questa vita devitalizzata ci diventa insopportabile senza che ce ne accorgiamo, poiché lentamente ma inesorabilmente ci preclude l’avvenire – la sorpresa e l’incertezza del futuro soggettivo. Gli psicologi, i medici e i guaritori in genere segnalano un drammatico aumento dei disturbi psicotici e depressivi tra i partecipanti allo stile di vita e di lavoro occidentale, mentre si moltiplicano i casi di abbandono spontaneo di un ruolo e di un io-apparenza, di fuga nell’anonimato e caduta in un vuoto assoluto.
Il senso dell’implicito, il potenziale ci coglie di sorpresa, perduto com’era in un mare infinito di possibilità inafferrabili e già esaurite in partenza. La voglia di viaggiare che istillano queste road-pictures di Annalisa Vandelli, addolcisce un poco la violenza dell’appello che la ricchezza interiore della diversità lancia contro le piacevoli immagini patinate, contro un mondo nel quale il tempo oramai può soltanto frullare. È evidente come per i personaggi di cui ci parlano queste fotografie, sia tanto improbabile condividere il nostro ideale di vita patinato, quanto lo è per noi ritrovare la loro vicinanza al destino, alla creazione, alla natura instabile della profondità. Rimaniamo impietriti di fronte a un’interiorità, che non è mai uguale a se stessa, ci sconvolge, tanto sovrasta il sapore stucchevole dei nostri like. Con una tensione tra amore, speranza e paura mai trattenuta negli sguardi, queste foto rappresentano l’esatto contrario della nostra dipendenza narcisistica dai selfies con la loro vuota e conforme mancanza di profondità, cui la faccia piatta, Face, si antepone ai sentimenti e li canalizza, se non li caccia indietro del tutto. Per via del contrasto tra forme di vita apparentemente inconciliabili, in queste fotografie c’è ben poco di cui avere compassione (facendo attenzione a non impiegare la compassione come proiezione-barriera che ostruire la comprensione del proprio sentire, poiché è qui che risiede il valore artistico fondamentale dell’opera), al contrario, esse ci parlano di noi, additando con superiorità morale ed estetica la crisi del corpo e dell’anima che ci affligge, il progressivo allontanarci da noi stessi in un diluvio di parti del corpo digitalizzate, quantificabili e riproducibili, tra svolazzanti brandelli di emozioni a forma di smiley. E così, persi nelle sensazioni parziali di corpi snaturati fatti di pixel, forse guardiamo persino con nostalgia a questi corpi e volti integri, benché segnati, che ci trasmettono un’unità di anima e corpo come teatro narrativo della loro storia.
Originalversion
Die Schatten des Fremden
Auf einer von Annalisa Vandellis Fotos dieser Ausstellung hockt eine Frau in den Tüchern ihrer Kleidung und den Drapagen eines einfachen Metallbetts. Die Faltenwürfe der verschieden gemusterten Stoffe geben dem Blick den fein durchkomponierten, ausgewogenen Halt eines religiösen Bildes, und erst beim zweiten und dritten Blick realisieren wir, dass wir beinahe Zeugen eines kurz zuvor vollendeten Ereignisses geworden wären, das in mythologischer wie religiöser Hinsicht als der Urakt des Sakralen bezeichnet werden kann: die Geburt. Obwohl uns die Frau nicht anblickt, vermengen sich Schmerz und Zweifel, Erleichterung und hoffnungsvoller Stolz in ihrem Blick, denn gerade hat sie der Fotografin die beiden soeben geborenen Zwillinge gezeigt, indem sie das Tuch ein wenig beiseiteschob.
Annalisa Vandellis Fotografien sind häufig mit denen Henri Cartier-Bressons verglichen worden. Wahr daran ist, dass in einigen ihrer Bildern mit beinahe traumwandlerischer Sicherheit jener Moment getroffen ist, da Hoffnung und Verzweiflung aufeinandertreffen und eine die andere erhellt. Sie hat, das wissen alle, die sie kennen, ein besonderes Empfindungsorgan für die erhabene, ja religiöse Dimension des besonderen Augenblicks gepaart mit feinsinnigem Humor, und ihre Fotos sind aufrüttelnd und überraschend, immer von großer Schönheit und zutiefst menschlich. Immer geht es ihr darum, den Moment des Lebens auf die Widersprüche tiefer Emotionen zu verdichten und zu bewahren, das Wesentliche einer Situation in einem einzigen Foto einzufangen, das zudem einem sicheren Gefühl für Komposition folgt. Das könnte die Antwort auf die Frage sein, warum ihre Fotos inspirieren, andere dagegen nur bloße Informationen weitergeben. Die Inspiration ist stärker als die Information, ein Foto katapultiert sich von selbst in einen höheren Bereich, wenn es nur stark genug ist, könnte man sagen. Aber so leicht ist es nicht. Ein grundsätzlicher Aspekt der Kunst, vielleicht der wichtigste, ist die Besonderheit des Zeitlichen, die in dem Bild zum Ausdruck kommt. Ein Foto erzählt immer eine Geschichte, es hat eine Dimension des Gewesenen, des „schon“, die wir nicht genau kennen aber mehr oder weniger gut erahnen können. Aber wenn es über diesen realen und imaginären Informationsfluss hinausspringt aus seiner zeitlichen Abfolge, die es in einem willkürlichen Augenblick anhält, dann erst kann man eigentlich von Kunst sprechen. Denn besondere Ereignisse und Augenblicke sind dadurch besonders, weil sie geladen sind mit etwas Implizitem, einem mysteriösen „Noch nicht“, das sich mit dem gewohnten Zeithorizont, dem linearen Zeitfluss des Narrativen verschränkt. Man fragt plötzlich nicht mehr nur, was war davor, sondern man wird vom Augenblick an sich erschüttert wie in einer Epiphanie. Dann verbindet sich das Bild mit dem eigenen Erinnerungs- und Imaginationsfluss, es löst sich von dem Narrativ und wird zu der fragenden, ja selbstbefragenden Ebene des Betrachters.
Annalisa Vandellis Fotos sind zugleich Road-pictures und singuläre poetische Kompositionen, sie kombinieren die flüchtige Reiseerzählung mit der besonderen Stasis einer aus der Zeit gefallenen Bildkraft, die uns betreffen, angehen will und daher auch durch unsere gänzlich andersartige Verfasstheit mit einer anderen Wertigkeit, fast mit einem neuen Exotismus geladen sind. Und wenn wir über die Neugier, die Suche nach Antworten auf mysteriöse Fragen oder gar religiöse Rätsel nachdenken, die diese Bilder als unabgeschlossene Angebote aufwerfen, kommen wir schnell zu dem wirklichen Motor der Imagination: wir wollen immer auch ein Stückweit wie Kinder durch verbotene Fenster in andere Welten schauen, die Möglichkeiten für unser eigenes Leben bereithalten. Erst dadurch ergibt sich die Spannung der imaginären Erzählung dieser Bilder, denn eine Aufzählung einer Folge von Ereignissen wird erst zur sinnvollen Erzählung, wenn sie uns im Innersten angeht. Ganz unwillkürlich messen wir die Möglichkeitsdimensionen an dem eigenen Wissen über uns selbst, an unserer Gefühlssubstanz. Und hier brechen wir mit diesen Fotos regelrecht auf, getragen von beiden Zeithorizonten reisen wir mit der Andersheit auch in die verborgene Andersheit unserer selbst, die in Zeiten wie unserer geradezu in Not geraten ist. Denn warum sind diese Welten, die Annalisa Vandelli von ihren Reisen wie ein Bildererzähler mitgebracht hat, heute mit soviel mehr Andersheit geladen, als sie es noch etwa zu Cartier-Bressons Zeiten waren? Der clash of civilizations stellt sich hier ausnahmslos in einem vom Kulturellen gelösten Gegensatz von Reichtum und Armut dar. Die Bilder erzählen vom Müll der westlichen Welt, der überkommene kulturelle Eigenheiten fast gänzlich weggespült hat. Die Menschen wirken unbehaust, ganz auf sich gestellt, kulturell entkleidet, existentiell ausgegrenzt durch die verheerte Landschaft, die Welt der Maschinen und Plastikflaschen, den Einzug der Gagets, die von einer glatten Existenz an der Oberfläche berichten. Ausgestattet mit ersten Insignien des 21. Jahrhunderts, die sie magnetisch anzudocken versuchen an die digitale Kommunikation, scheinen sie plötzlich wie Fremde in eine Welt geworfen, die uns wie ein ausgefranster Randbereich westlicher Lebensformen vorkommen muss. Eine Frau berührt vorsichtig einen Modeartikel, hinter ihr erscheint das glattgeschminkte Gesicht eines Models auf einem Werbeplakat. Das Mysterium solcher Kombinatorik ist, dass eine Art automatische Messlatte gelegt wird, in der das Blasse vor der Anziehungskraft des authentischen Gesichts, des gelebten Körpers kapituliert. Nur ist dieser Mehrwert nicht mehr getragen von dem Exotischen kultureller Alterität, sondern von einer nur sehr schwer zu erschließenden Gegensätzlichkeit, die mehr mit uns zu tun haben dürfte, als uns lieb ist.
Es reizt mich, hier ein wenig mit der poetischen Aufbruchseinladung der Fotos im Gepäck in uns selbst hineinzureisen und sich nochmals klarzumachen, mit welchen eminenten Gegensätzen wir es allein schon bei der materiellen Erscheinung der Fotos zu tun haben: das wirkliche, weil äußerlich vollkommen glanzlose aber mit reinen Gefühlen erhellte Leben springt aus der opaken, hochästhetischen Oberfläche der aufwändigen Textilabzüge; aseptisch, hochtransparent und unverletzt sind die eisengerahmten Glasflächen, die das Verletzliche, Widerständige, Verunreinigte der menschlichen Gegenwart zum Auge transportieren. In diesem Gegensatz hallt unweigerlich ein elementarer Abgrund unserer heutigen Gesellschaft nach, den der Positivgesellschaft, die das Glatte zelebriert und die Negativität des Todes, des Leidens, des Desasters menschlichen Lebens auszugrenzen sucht. Unsere Ideale spitzen sich immer mehr auf ein medizinisch aufwändig verlängertes, angenehmes, gesundes, aber ereignisloses Leben zu, in dem man Lebensmöglichkeiten nur noch an-zappt. Das entlebte Leben aber wird uns im Seelischen unerträglich, ohne das wir es merken, weil es uns langsam aber sicher verschließt für das Kommende, das Überraschende und Ungewisse der subjektiven Zukunft. Die Front der Psychologen, Mediziner und Heilpraktiker berichten von einer dramatischen Zunahme psychotischer und depressiver Seelenerkrankung der Teilnehmer des westlichen Arbeitsstils. Es häufen sich Fälle spontaner Rollenaussteiger, die aus ihrem Schein-Ich plötzlich in die Anonymität entfliehen wollen und in absoluter Leere landen. Der verlorengeglaubte Sinn für das Implizite, das Potential überfällt uns rücklings, weil es uns im unendlichen Pool der virtuell bereits abgelebten und unverbindlich herangeisternden Möglichkeiten abhanden gekommen ist. Die Reiselust, die Annalisa Vandellis Road-pictures auslösen, zehrt aus der Auflehnung, mit der sich die Innerlichkeit des Fremden wie ein Apell gegen das angenehm Glatte stemmt, gegen eine Welt, die das Zeitliche nur noch schwirren lässt. Die Tatsache, dass die Menschen, von denen diese Bilder zu uns sprechen, in absehbarer Zeit wohl ebensowenig in den glättenden Genuss unserer Ideale kommen, wie wir ihre Nähe zum Schicksal, zur Schöpfung, zu den instabilen Tiefen zurückgewinnen werden können, springt uns förmlich an. Wir stehen staunend vor einer Innerlichkeit, die sich nie gleich ist, sie stößt uns um, da sie das anschmiegsame Like-Gefühl der zeitgenössischen Kommunikation um Längen übertrifft. Durch die Spannung aus Liebe, Hoffnung und Angst, die in diesen Blicken nicht zurückgehalten werden, sind diese Fotos absolute Gegenteile der narzisstischen Selfi-Bildsucht in ihrer leeren, konformen Tiefen- und Blicklosigkeit, in der sich das flache Face vor die Gefühle schiebt und diese kanalisiert, wenn nicht gar ganz zurückdrängt. Durch diesen scheinbar unüberbrückbaren Kontrast der Lebensformen ist deshalb erstaunlich wenig Mitleiderheischendes an diesen Fotos (man muss natürlich immer aufpassen, dass man das Mitleid nicht als projizierte Barriere vor der Wahrnehmung der eigenen, möglichen Gefühle hernimmt, in der die wesentliche künstlerische Kraft des Werkes verborgen ist), im Gegenteil, sie deuten mit ästhetischer und moralischer Überlegenheit auf die Krise des Körpers und der Seele, die uns im Bann hält, da wir uns entfernen von uns selbst durch die Flut digitaler Datensätze mit quantifizier- und reproduzierbaren Körperteilen, durch die schwirrende Flut gesmilter Gefühlsfetzen. Wir ergehen uns in Partialsensationen gepixelter Zerfallskörper und blicken vielleicht sogar mit Sehnsucht nach den intakten, weil spurenvollen Körpern und Gesichtern, die eine Einheit des Seelischen und Körperlichen als narrativen Schauplatz der eigenen Geschichte vermitteln.